Con un'intervista al direttore de La Nuova Provincia di Biella Massimo De Nuzzo, l'ex senatore della Lega Nord Claudio Regis è tornato a far sentire la propria voce dopo un lungo silenzio, spezzato solo di rado e quasi a monosillabi negli anni del suo allontanamento dalla vita politica. Nell'intervista Regis ricorda episodi che, a suo dire, lo hanno pesantemente danneggiato, "gossip" per citare il titolo del pezzo. C'è la vicenda dell'incarico all'Enea, di cui è stato vice-commissario, e della laurea mai conseguita messa nel curriculum che prima ha ingolosito il giornalista del Corriere della Sera Gian Antonio Stella in uno dei suoi pamphlet anticasta e poi ha portato a un'inchiesta della magistratura e a un processo. E c'è la vicenda di un disegno di legge che riguardava anche la produzione di mine. Nell'articolo la domanda di De Nuzzo recita: "Si diceva che le sue società producessero mine antiuomo". La risposta comincia così: "È una delle tante scemate che sono state dette sul mio conto".
Sul primo episodio non resta che attendere la verità processuale: dopo la condanna in primo grado con risarcimento a molti zeri imposto dalla Corte dei Conti, Regis attende l'appello, certo – dice lui – dell'assoluzione. Ma il secondo dà l'occasione per ricordare il motivo per cui questo blog è nato, il fact checking, espressione un po' pretenziosa che in fondo nasconde una funzione semplice: ascoltare le parole di qualcuno, meglio se famoso e potente, e controllare che corrispondano a verità.
Il salto all'indietro è di quelli lunghi, fino all'autunno del 1995. La prima tornata di amministrative con l'elezione diretta del sindaco era storia recente. In estate Gianluca Susta, spinto da una coalizione che metteva insieme Ds e gli ex delle forze di pentapartito radunati sotto la lista dell'Orso, era diventato primo cittadino superando al ballottaggio il rivale (e favorito) di centrodestra Benito Rimini, anche grazie alla Lega Nord, che dopo essersi presentata da sola al primo turno né si apparentò con Forza Italia e An (si era alla vigilia del primo voltafaccia di Bossi a Berlusconi) né diede indicazioni di voto per l'area apparentemente più affine al pensiero del suo elettorato. Quando poi venne il momento di votare il presidente del consiglio comunale, carica introdotta dalla nuova legge e che una buona prassi ormai dimenticata assegnava all'opposizione, la strana alleanza tra centrosinistra e Carroccio mise sul nuovo scranno di Palazzo Oropa proprio Regis. La prima polemica, feroce, arrivò dopo pochi mesi. Era, appunto, autunno quando Maurizio Costanzo, nel suo ancora popolarissimo show di seconda serata, attaccò pesantemente un disegno di legge all'esame del Senato, che in un articolo sembrava poter riaprire le porte alla produzione di mine antiuomo in Italia. Il comma citava apertamente solo il divieto di esportazione e transito, senza menzionare – appunto – la produzione. L'anno prima, nel 1994, il Senato stesso aveva votato una mozione in cui impegnava Governo e Parlamento a mettere fuori legge uso, produzione ed esportazione di questo tipo di armi, di cui per anni l'Italia era stata uno dei fabbricanti più attivi.
Dopo la denuncia di Costanzo e dell'allora parlamentare verde Edo Ronchi, si sollevò un coro di proteste dentro e fuori le istituzioni. Quando si scoprì che tra i firmatari di quel disegno di legge c'era anche l'allora senatore Claudio Regis, l'onda delle polemiche raggiunse Biella. Fu “il Biellese” a dare enorme risalto alla vicenda, beccandosi in seguito un'irrituale richiesta danni in sede civile da Regis al posto della classica querela: del resto nella citazione non si obiettava sul merito e sul contenuto dell'inchiesta giornalistica, ma sul titolo della prima pagina, un “Mine made in Regis”, accusato di far pensare che fosse lui uno dei produttori, dettaglio mai scritto in quello o altri articoli. La Regis Spa faceva affari anche con i dispositivi militari, ma perché produceva sistemi elettronici usati sia per le armi sia, per esempio, nelle strumentazioni mediche più tecnologiche. Comunque nel microcosmo politico locale scoppiò un mezzo finimondo: da sinistra (Rifondazione Comunista non era entrata in maggioranza) e da destra (Sandro Delmastro di An era la più decisa avanguardia in questa battaglia) fioccarono polemiche e richieste di dimissioni. Mentre dalla maggioranza arrivarono timidi silenzi e difese d'ufficio: i Ds chiesero invano a Regis di firmare una mozione per la pace. Ma la linea ufficiale di Susta e dei suoi fu di catalogare gli attacchi di An (il cui capogruppo era l'attuale vicesindaco Livia Caldesi) e Rifondazione come "strumentali" e di chiedere al senatore di proporre emendamenti a quel disegno di legge per fugare ogni dubbio. A metà gennaio, quando fu il momento di votare le mozioni che chiedevano le dimissioni del presidente, vinse la linea della maggioranza e An e Rifondazione furono costrette a rientrare nei ranghi.
Una tregua di poche settimane: quando Claudio Regis venne chiamato a introdurre un comizio a Cossato dei colleghi di partito Erminio Boso e Mario Borghezio, le cronache dei giornali locali raccontarono di sue frasi su "federalismo o secessione" e, soprattutto, contenenti giudizi pesanti verso i meridionali. Regis smentì solo in parte ("Le affermazioni che mi sono state attribuite sono vere al 50%" disse in consiglio comunale) e fu un altro finimondo: gli attacchi, guidati ancora una volta da An, sfociarono in turbolenze a palazzo Oropa in cui si arrivò a un millimetro dalla rissa. Si valicò invece il confine di urla e insulti, con l'indipendente di centrosinistra Giovanni Mancini (di origini orgogliosamente meridionali) che uscì dall'aula per protesta non appena Regis iniziò a parlare, salvo rientrare quando il presidente lo apostrofò con un "chi esce ha la coda di paglia" e con Sandro Delmastro che, in preda all'ira, sferrò un pugno al banco così forte che fu necessaria una medicazione. Anche Susta, stavolta, prese le distanze: "Si rischia di abusare della nostra pazienza" disse. E il centrosinistra finì per votare l'ordine del giorno anti-Regis partito da centrodestra. Era il 26 febbraio 1996. Esattamente un mese dopo, il 26 marzo, Regis aprì il consiglio comunale rassegnando le sue dimissioni in un breve discorso in cui attaccò la maggioranza di centrosinistra per non averlo difeso e proclamò i suoi ideali federalisti e il suo sostegno alla bossiana Padania. Fu, ovviamente, nuova bagarre, con Gian Maria Ugliengo dell'Udc che arrivò a chiedere l'invio della registrazione in Procura (dove già il senatore aveva i suoi problemi, per un attacco verbale ai magistrati che gli costò un processo).
E il disegno di legge sulle armi? Che nelle pieghe delle norme si pensasse anche alla produzione di mine, lo ammise durante il dibattito parlamentare un senatore, Massimo Dolazza (Lega Nord), in seguito famoso per essere quasi entrato a palazzo Madama con una pistola in tasca. Intervenendo in commissione difesa il 16 novembre 1995, sottolineò che le norme restrittive italiane avevano "favorito, proprio nel campo delle mine, il ricorso da parte di molte nazioni del cosiddetto terzo mondo a forniture di materiale tecnologicamente obsoleto, la cui pericolosità e letalità è incomparabilmente superiore a quella dei prodotti come quelli della nostra industria, tecnologicamente più avanzati. È quindi da accogliere un provvedimento che, come quello in esame, rimuove impacci e impedimenti all'industria militare nazionale che, nel recente passato, per poter continuare certe sue produzioni, è stata addirittura costretta a trasferire all'estero i suoi impianti". Il disegno di legge non ebbe mai il voto positivo dell'aula, anche perché nel 1996 si andò a elezioni anticipate. Fu solo questione di un paio d'anni, però, perché nel 1997 si arrivasse a due passi fondamentali: l'approvazione della legge 374 che ha messo fuori legge una volta per tutte la fabbricazione di mine antiuomo in Italia (ma anche la ricerca tecnologica e la cessione di brevetti) e la firma italiana in calce al trattato di Ottawa, che chiedeva agli Stati aderenti anche di smantellare le scorte di questo tipo di armi conservate nei propri arsenali. La distruzione dei sette milioni di mine di cui disponeva l'Italia è stata ultimata nel 2003. Ma nel mondo di mine (e di mine italiane, che i governi non aderenti al trattato avevano comprato prima del 1997) si muore ancora: quando nel 2010 un blindato Lince esplose in Afghanistan, causando la morte di due alpini e il ferimento di altri due, fu una mina anticarro Tc6 a farlo saltare in aria. Una mina made in Italy.





















