Oggi provo a spiegare perché mi sembra giusto non pubblicare le notizie di suicidi. La mia convinzione non ha solo a che fare con quello che pensano molti psicologi, e cioè che parlarne e scriverne accentui l'effetto emulazione, dando la spinta decisiva a chi era sull'orlo dalla disperazione. Quando facevo il cronista, in un giornale che applicava con rigore questa regola (è “il Biellese”: la applica ancora), ero perplesso: le notizie – pensavo – sono notizie. E se suscitano interesse vanno pubblicate.
Poi, una mattina molto presto, squillò il telefono prima che andassi in redazione. Erano più o meno le sette del mattino, un'ora in cui i telefoni tacciono, salvo emergenze. Risposi. Era un amico. “Che succede?” “Mi chiedevo se potete non pubblicare una notizia”. La sua voce era lontana, lenta, alla ricerca di una naturalezza che non poteva esserci. Non si può essere preparati alla morte di un fratello, perché si lancia dal ponte più alto d'Europa. Lo rassicurai con il sangue raggelato: il mio giornale, di suo fratello, non avrebbe scritto nulla. Mi chiese di più, se potevo telefonare ai colleghi delle altre testate, e chiedere loro di fare altrettanto. Glielo promisi. Aveva passato la notte in bianco. Il fratello che non era tornato a casa, le ricerche, l'auto parcheggiata sulla strada del ponte. E poi i soccorritori scesi a valle, a cercare conferma di quello che si immaginava. E infine il rituale terribile del riconoscimento, il telo che si solleva su quel che resta di una persona dopo un volo di cento metri. Il mio amico aveva appena passato tutto questo.
E non era nemmeno la metà dello strazio: restava il “dopo”. La cognata, il nipotino piccolo, i suoi genitori. Come spiegare quello che non si può spiegare? Come addolcire il bicchiere di fiele di una tragedia? Impossibile. Ma far calare un velo di silenzio, almeno spegnendo il rumore non necessario, quello si può fare. Telefonai per lui alle altre redazioni, chiesi un favore. Lo ottenni. Ma cominciai a pensare che era ingiusto che, per una cortesia a un collega, un suicidio fosse stato relegato in una notizia breve senza nomi, mentre altri, dopo aver messo fine alla loro vita, venivano accompagnati all'altro mondo dalla curiosità e dalle domande indiscrete non solo dei vicini di casa, ma anche dei lettori sconosciuti. E sulle ipotesi che, giocoforza, coinvolgono anche i vivi. Pensate alle domande tipo: litigava con la moglie? Era pieno di debiti? Era pazzo o depresso? Non avevo mai pensato a quanto possa ferire ognuna di queste domande.
Quella mattina me ne resi conto: non è solo la memoria di chi se n'è andato che si mette a repentaglio, pubblicando quella notizia. È il peso sulle spalle di chi è rimasto che aumenta a dismisura, sommando al dolore la fatica di sopportare gli sguardi indiscreti, talvolta morbosi, di chi prima non li ha mai guardati in viso. L'altra sera il telefono è tornato a squillare a un'ora in cui dovrebbe tacere. Un déjà vu. Un altro amico, che era appena stato a casa di un amico trovato morto. Un marito, un padre di due bimbi piccoli a cui, su consiglio di uno psicologo, si è provato ad addolcire il dolore: "Papà è stato male all'improvviso, è andato in ospedale, non ce l'ha fatta...". E la stessa preoccupazione: non è che si può evitare di metterlo sul giornale? Ero certo che “il Biellese” non ne avrebbe scritto, anche se non lavoro più lì da anni. E sapevo che non lo avrebbe fatto nemmeno NewsBiella. Già, perché nell'era di internet è tutto diverso: il giornale di carta “muore” dopo ventiquattro ore. La notizia sul web è sempre lì, a portata di una ricerca su Google. Non solo. A volte non è abbastanza nemmeno correggerla o rimuoverla. Se il motore di ricerca l'ha già riconosciuta e messa nei suoi archivi, la traccia della stesura originale resta, con quello che basta a spezzare un cuore. Immaginate un bimbo di dieci anni che cerca per gioco il suo nome su Google (sono nativi digitali, lo sanno usare meglio di tutti voi) e, invece, trova quello del papà sotto un titolo con la parola “suicidio”. E ora immaginate un qualsiasi bimbo di dieci anni che conoscete. E forse capirete meglio il mio punto di vista, senza chiedere aiuto agli psicologi.
























