Nella minuscola chiesetta di Anzasco, sul lago di Viverone é conservata una statua mariana che, secondo la leggenda di fondazione del santuarietto, sarebbe l’unico manufatto salvato dalla distruzione d’un paese dedicato a San Martino.
Gli abitanti di questo borgo, resi avidi ed egoisti dal troppo benessere, avrebbero rifiutato l’elemosina ad un angelo presentatosi alle loro case con l’aspetto d’un povero pellegrino e per la loro cattiveria sarebbero stati puniti distruggendo le loro case.
Solo le poche famiglie buone e generose sarebbero state avvertite del cataclisma dall’angelo e si sarebbero salvate proprio mentre le acque del lago salivano improvvisamente, sommergendo tutto e tutti.
Dal disastroso evento si sarebbe salvata solo la statua, rimasta a galleggiare finché, portata a riva dai pescatori dei borghi di Piverone, Viverone ed Azeglio, avrebbe miracolosamente manifestato la volontà d’essere trasportata nel sito detto di Ursasco, nell’ansa più assolata del lago.
La leggenda biellese del borgo sommerso dalle acque é simile a quella valdostana del lago di Villa nei pressi del castello di Challand dove si favoleggia della ricca città di Felik sommersa dall’esondazione delle acque per un castigo divino contro i suoi abitanti, colpevoli d’aver rifiutato la cristiana carità a San Maurizio, giunto nel borgo con le vesti di povero pellegrino.
Si dice che i rintocchi della campana del campanile risuonino lugubremente ancor oggi gettando una pietra nelle acque e che alcuni sventurati montanari avessero tempo addietro assistito ad una infernale processione di anime purganti lungo le sponde del lago.
La tradizione della madonnina di Anzasco ha invece un solido fondo di verità poiché risulta che effettivamente esisteva nell’anno 1200 nella zona di Comuna sul bordo del lago una chiesa dedicata a San Martino dipendente dalla Pieve di Puliaco.
Già don Rolfo aveva scritto che sul lago “[d]a documenti storico risulta che è realmente esistito il borgo di S. Martio ad Lacum [...] E’ ancora vivo il ricordo di un’antica chiesa dedicata a S. Martino sui confini di Roppolo presso la Comuna di Viverone e questo è ampiamente documentato. Un documento dell’8 gennaio 1499 dice che... S. Martini de lacum Ropoli, dista a un tiro di balestra dal lago”.
L’autorevole storico Antonino Olmo ricorda che la chiesa “[d]ista[va] due tiri di balestra dal lago, circa sei dal Becco Zimonello, circa un miglio da Roppolo e aveva attorno a sè un borgo abitato da contadini e pescatori. Se ne hanno notizie, sia dagli atti d’archivio del Municipio di Roppolo, sia dagli elenchi delle Pievi e Ciese dei secoli XIII-XV.
Una notizia del 1146 ricorda già la “ecclesia de lacu” che ancora agli inizi del 1500 era officiata; ma, scomparso l’abitato per eventi bellici, la chiesa cadde pure in rovina, e nel 1606, la visita pastorale la definiva “diroccata”. Attorno a S. Martino sorse la nota leggenda della città sommersa. Squarciato il velo della leggenda, rimane storicamente provata l’esistenza e della chiesa e del paese scomparsi nel secolo XIII”.
Tuttavia, la statua della cappella di Anzasco non é quella originale, ricordata da don Carlo Rolfo come “antica e rozza” ma sostituita probabilmente a metà del Cinquecento.
Nella relazione d’una visita pastorale del 1651 si può leggere che “Sull’altare che é di legno ed addossato alla parete (di fondo), sopra uno sgabello è posta una statua dorata della B.V.M. col Bambino Gesù. Sulla parete al disopra dell’altare suddetto, sono dipinte le immagini della Beata Vergine, di S. Francesco e di S. Rocco, Giace in questa chiesa una certa statua grande della B.V.M. non colorita e non tenuta in venerazione”.
Perché l’antica scultura fosse stata messa da parte resta un mistero così come non si comprende per quale ragione nella fantasia popolare un evento reale come la distruzione di un borgo per gli orrori d’una guerra sia stata attribuita ad un castigo divino.
Ma nei pressi di Viverone, nella zona dell’Alicese é viva anche la leggenda relativa alla cosìdetta “Dora Morta” che trae origine da un‘opera idraulica antica di cui scrisse già il santhiatese Jacopo Durandi ricordando che “ne’ confini delle campagne d’Alice e Cavaglià ritrovasi una cavità detta comunemente la Dora morta, la quale incominciando nella collina superiore a’ detti luoghi a ponente chiamata di Torano e Sapello da muro protende senza interruzione con notabile profondità e larghezza verso levante sui confini del territorio di Santià, indi declinando verso settentrione ne’ confini delle campagne di Santià e Cavaglià prosegue e s’introduce nella boscaglia però già montuosa chiamata Briango. Questa cavità tiene ancora a’ suoi lati di quando in quando una congerie di ghiaia e pietre non dissimili da quella che sogliono lasciare alle rive de’ loro letti i fiumi e i torrenti. Oltre di che sotto la superficie di quel terreno tosto s’incontra una minutissima sabbia e ghiaia simile a quel loto che depone la Dora per dove passa e più non vi si trova in qualche distanza dalla detta cavità od alveo. Si dice inoltre che finalmente per asciugare quell’ampia così inondata pianura siasi tagliata quella parte della collina posta a levante detta oggidì Rivarotta per cui appunto scorre la Dora tra Villareggia e Mazzè acciò le acque della Dora avessero un più libero e diritto corso. Ma l’apertura di Rivarotta non può essere intieramente un’opera nuova: sempre per essa vi passò quel fiume. Bensì fattosi agevolmente sotto d’Ivrea secondare il loro corso dalle acque della Dora e per la mancanza di queste essiccato a poco a poco quel vasto lago che seguitò anch’esso la corrente del fiume, vi restarono soltanto inondati i siti più bassi della suddetta pianura inferiore ad Ivrea, in cui sempre si mantennero (anche per le acque pluviali che d’ ogn’intorno vi scorrono) i due laghi di Viverone e di Candia”.
Sempre Durandi sottolineava che “verso i confini delle campagne di Santià, Cavaglià ed Alice vi si ritrova distesa da mezzodì a settentrione una cavità (intrecciata ne’ luoghi ne’ quali si cangiò l’aspetto al terreno), che dimostra essere stata anticamente il letto di una qualche acqua. Tuttavia si denomina Dora morta. Le vestigie di codesto alveo continuano poco lontano da piede delle colline che riguardano a levante. In alcuni luoghi quell’antico alveo forma degli angoli, in altri si avvicina per poco all’alveo del Naviglio che si dirama dall’istesso fiume Dora presso Ivrea. Di quì certamente apparisce che si derivava anticamente dalla Dora un grosso canale d’acqua che in tempo d’inondazioni convien pure che allagasse qualche tratto di quelle campagne. Una parte del territorio di Livorno doveva esserne sovente inondata. Vi si conservò ivi ancora il nome delle Paludine”.
In un lontano passato, tutta la zona pianeggiante dell’anfiteatro morenico solcato dalla Dora Baltea era effettivamente un grande lago che col tempo o si é prosciugato lasciando residui paludosi e formando i laghi di Candia e Viverone. Un nuovo corso della Dora é stato artificialmente creato deviando a Mazzé lo sbocco del fiume dal territorio fra Cavaglià ed Alice Castello, spostandolo per sempre dal territorio che ancor oggi si chiama “Dòjra mòrta”.
Questo evento reale é stato alla fonte di diverse leggende popolari che lo attribuiscono in diverse forme all’opera d’una misteriosa e perversa regina con poteri stregoneschi che avrebbe ordinato ai suoi sudditi di deviare senza preavviso il nuovo corso del fiume verso Mazzé per annegare uno schiavo di cui era segretamente innamorata ma non ricambiata e che si trovava sfortunatamente nel territorio dove le acque erano state fatte defluire.
Un’altro racconto fantasioso ha ancora per protagonista la regina malvagia che avrebbe deviato le acque ed eliminato il grande lago solo per ingrandire e rendere più prospero il suo regno e renderlo più ricco di quello d’un altra sovrana abitante a Vercelli. Giove in persona avrebbe condannato questo gesto di presunzione, boria ed insolenza uccidendola e costringendola a vagare per l’eternità sulle sue proprietà tanto agognate ma che non poteva godersi.
Viene tramandata anche la tradizione che il grande lago perduto fosse in passato la terra di bengodi di un’antica popolazione ligure che si sarebbe unita a degli stranieri d’origine celtica portatori d’una civiltà più evoluta, basata sulla lavorazione del ferro e dell’oro. La sovrana del nuovo popolo creato da questa felice unione sarebbe stata la solita regina perfida e crudele. Costretta a decidere la sorte dei sudditi diventati nel tempo troppo numerosi per quel territorio troppo angusto, scartata l’idea d’una emigrazione di massa e della disgregazione dei nuclei famigliari, la regina pensò d’ingrandire i possedimenti prosciugando il lago.
Nel corso dei lavori trovò il modo di uccidere uno dei suoi amanti, facendo aprire all’improvviso la diga che tratteneva le acque che stavano per essere deviate verso Mazzé. Ma i maldestri sicari avrebbero fatto un tragico errore rompendo anzitempo la diga ed un’immensa massa d’acqua avrebbe sommerso tutti i villaggi. Mentre, angosciata e sgomenta, la regina si recava sul suo cocchio a constatare di persona i danni della sua sciagurata impresa i cavalli imbizzarriti l’avrebbero fatta precipitare nel fiume ed il suo fantasma vagherebbe nelle notti di luna piena proprio nel territorio della “Dòjra mòrta”.
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