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Biella motori | 02 maggio 2021, 20:15

Dalla Formula 1 a Le Mans, come la morte di Senna ha trasformato la carriera di Erik Comas

Un articolo di Raffaella Serra Comas a 27 anni dalla scomparsa del pilota Ayrton Senna

Erik Comas - Foto archivio Comas

Erik Comas - Foto archivio Comas

È il 23 aprile 2016 e mi accingo ad entrare nello spazio dell’ autodromo di Monza che ospita la mostra "L'ultima notte di Ayrton Senna". Vicino a me il mio futuro marito, l'uomo che era a pochi metri da Ayrton quando morì nel 1994 ad Imola. L'uomo al quale Ayrton salvò la vita due anni prima sul circuito di Spa Francorchamps. Erik Comas.

Gli chiedo se se la sente davvero di entrare; di quella mostra molti hanno parlato e, trovandoci a Monza, mi era sembrato doveroso visitarla. Il mio compagno abbassa lo sguardo come se in quel preciso momento immagini e parole del passato lo stessero sopraffacendo. 

Ci ho impiegato molto tempo a rivelargli che nella sua pagina Wikipedia in lingua italiana c’era descritto qualcosa di differente dalla realtà che lui stesso visse alla curva del Tamburello; parole micidiali, parole tipo “Comas giunge a tutta velocità laddove Senna stava ricevendo i soccorsi rischiando di provocare una carneficina”. Una carneficina. Qualcuno ha scritto proprio così, sacrificando la verità a favore della spettacolarità che il termine evocava.

Erik quel 1° maggio fermò la sua Larrousse molti metri prima dell’ambulanza che scorse da lontano, dopo un gran caos nelle comunicazioni radio, vide il corpo del pilota brasiliano esalare l’ultimo respiro, tornò a piedi ai box in uno stato di shock e prostrazione e l’anno seguente abbandonò la Formula 1 e si trasferì in Giappone.

Richiamo l’attenzione del mio fidanzato mettendogli una mano sulla spalla e lui con un cenno del capo risponde alla mia domanda: sì, vuole visitare la mostra. 

Mi faccio coraggio e penso che non può essere più penoso di quando, un anno fa, siamo stati a San Paolo del Brasile sulla tomba di Ayrton tenendoci per mano. In quel parco, mentre Erik deponeva sulla targa di Ayrton Senna Da Silva dei fiori bianchi, una sensazione prevalse sulle altre: sentii l'invidia che il mondo provò verso quell’uomo straordinario. 

Lucidamente non saprei spiegare un concetto che meriterebbe un'ampia dissertazione a metà fra il filosofico ed il paranormale ma di certo ha del razionale: era bello Ayrton, ricco di nascita, vincente per merito. In una parola invidiato.

Entro nella galleria espositiva e lascio Erik precedermi. So che proverà cose che io non sarò mai in grado di comprendere fino in fondo e delle quali mai domanderò. Ci sono posti dell'anima e anfratti del cuore nei quali gli altri non sono ammessi.

Prima di incontrare Erik per me Senna era un nome al quale non legavo un volto, uno dei molti piloti che faceva uno sport pericoloso, lontano anni luce dal mio e a me del tutto estraneo. Non l'ho mai tediato con domande sulla Formula 1, non sono una fan del suo passato né di sport che non pratico ma lo sono del suo presente, della sua persona.

Le cose che lui mi aveva raccontato spontaneamente di quel 1° maggio 1994 improvvisamente si legano, in un'atmosfera surreale, ai testi esposti accanto alle foto. Ayrton giovane sui kart magro e spaurito, poi in smoking affascinante e sicuro, ed ancora umiliato da Prost, poi vincente su Prost e via via fino ad arrivare a quell' ultimo suo giorno di vita. La sua battaglia per rendere la F1 più sicura, il suo sgomento per la morte di Ratzenberger quel terribile 30 aprile, le sue premonizioni.

Leggo tutto ciò su cui i miei occhi si posano, dettagli che non conoscevo e che nemmeno l'incontro dell'anno prima in Brasile con la famiglia Senna mi aveva svelato. Scopro così l'uomo, non il campione. Una creatura rara, privilegiata ma altruista, immensa ma vestita di umiltà. 

Guardo Erik che, come centinaia di altri avventori, osserva commosso ed in silenzio la sequenza di immagini. Ha gli occhi umidi, il groppo in gola. Compra il libro della mostra senza essere riconosciuto, ringrazia con l'unico filo di voce che trova e paga. Ringrazia perché è nel suo gentile DNA farlo. Ringrazia come ogni giorno quando cucino per lui, quando gli insegno una nuova parola di italiano,  quando subisce le mie lezioni di fitness o quando "ringhio" ad un giornalista incauto. 

Lo osservo con un misto di tenerezza e di ammirazione: dell’incidente che ha portato via Ayrton al mondo tutti sanno, tutti hanno scritto. Quello che ha vissuto il mio compagno tra Imola ed il Giappone lo conosce lui solo. Quel dolore, nel quale sarebbe rispettoso non entrare a gamba tesa come i social spesso fanno, ha indotto una reazione, un cambiamento di vita, di continente e di specialità sportiva che lo ha proiettato in una nuova dimensione: due titoli nipponici nel GT e otto partecipazioni alla 24 ore di Le Mans in 12 anni sono stati il frutto di una scelta scaturita da una tragedia. 

Le auto guidate da Erik e naturalmente dai suoi teammates (come la Porsche 911 GT2, la Nissan R390 GT1, la Nissan R391, la Dallara LMP900 Judd o la Pescarolo LMP900 Judd) nel “ giorno più lungo di giugno" sono pezzi di storia, testimoni di evoluzione tecnologica, auto divenute icone che hanno ispirato video games, films, gadgets, merchandising….

Sommessamente usciamo nella luce abbagliante del pomeriggio monzese che ci riporta al presente, ad una vita felice fatta di incontri, rallies, vittorie, sconfitte, sport, viaggi, amici, nemici, veri piloti e amatori.

E finalmente sorrido consapevole. Si, sorrido perché il più grande pilota di tutti i tempi, con un gesto di estremo altruismo che travalica l'essenza di campione, ha salvato la vita alla persona che oggi è la mia vita.

Ora tocca a me ringraziare, ma ad alta voce: "Merci Ayrton, sarai ogni giorno con noi".

Raffaella Serra Comas

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