Valle Elvo - 26 aprile 2020, 08:00

Il biellese magico e misterioso: Gnomi, elfi e “crusch ramingher” in val dl’Elf

A cura di Roberto Gremmo

Il biellese magico e misterioso: Gnomi, elfi e “crusch ramingher” in val dl’Elf

    L’accostamento é quasi scontato ed inevitabile: nella valle dove scorre l’Elf ci sono gli elfi.

    Nel leggendario popolare locale c’é un singolare affollamento di figure fantastiche di appartenenti al‘piccolo popolo’ e si favoleggia sui piccoli “carchèt”, esseri fatati con zampe d’anitra che si riuniscono nei loro convegni notturni; sui piccoli “ghignarèl” allegri e giocherelloni; sugli “orchetti” e soprattutto sul beffardo “spitascé” della stirpe dei nani dispettosi.

    Proprio quì s’intrecciano o s’affiancano e talvolta si sovrappongono i racconti fantastici su esseri venuti da lontano, con gli arti deformi, di piccola statura, custodi di tesori nascosti, padroni dei segreti dell’arte casearia, eremiti e refrattari alla società urbana.

     Come sempre, queste tradizioni hanno un fondo di verità, un significato nascosto perché debbono pur avere un sensole decine d’impilamenti pietrosi che solo fra Viona ed Elf vengono caparbiamente elevati da ignoti ma abilissimi scultori.

   Esiste tuttavia una figura reale che parrebbe davvero avere alcune delle caratteristiche degli esseri che popolano il leggendario del biellese ed é il “Crusch”, il pastore errante delle montagne.

    Non per caso dagli alpigiani della val dl’Elf il pastore irregolare degli alti pascoli veniva chiamato “oatun”, sia perché sotto il mantello indossava una giaccona piena di tasconi per riporre ogni cosa nel peregrinare sia perché il termine “viton” con cui venivano bollati in senso quasi sempre spregiativo richiamava gli abitanti stanziali delle grange isolate e dalla vita grama.

    Il pastore nella maggior parte dei casi era un estraneo perché proveniva da un paese lontano, in molti casi dalla Bergamasca.

    Non stupisce più di tanto se il “Gipin” montanaro del carnevale biellese ha un omologo nella maschera bergamasca del “Giopì” guzzuto e se nell’immaginario popolare il personaggio dell’uomo selvatico (come il popolo dei piedi d’oca) proviene sempre da lontano.

   Il pastore usa, anche come forma di autodifesa, un gergo del tutto particolare, una delle tante parlate artificiali usate da un ristretto gruppo di appartenenti ad una particolare categoria di lavoratori (come quello dei muratori o la “rëlla dij Ciòlin”, gli sternitori di Graja) o di gruppi sociali emarginati (come il “giudeo-piemontese” usato nei ghetti).

   La “slacadura” il parlare del “crusch” conteneva parole suggestive come “verdosa” per erba, “povrosa” per farina, “gacc” per brutto, “scaj” per soldi, “scarviné” per bastonare o “empeltré” per mostrare d’aver compreso.

  Erano parole incomprensibili oltre il mondo chiuso dei nomadi della montagna.

   Proprio la cripticità della parlata garantiva ai marginali delle Alpi un vantaggio non trascurabile di fronte agli estranei, gli “scuciat”, i sedentari. Tutti, dai margari ai turisti, guardati con sospetto e timore. 

    L’estraneità del pastore era evidente anche dal modo trascurato e ‘selvaggio’ del vestire perché indossava quasi sempre delle lunghe mantelline nere di lana che venivano tessute da una ditta bergamasca.

    A vederlo da lontano, fermo a controllare il gregge, con in capo un cappellaccio nero e l’immancabile “scabrin”, il bastone poteva ricordare l’“òm ëd pera” e la scultura spontanea caratteristica della val dl’Elf può aver preso per modello proprio questa figura strana e in qualche modo misteriosa ed affascinante.

   Ancora una settantina d’anni fa l’abbigliamento tipico del pastore consisteva in estate in un mantello chiamato “vascapon” realizzato utilizzando una particolare erba apina, la “carex brizoides” fortemente impermeabile che veniva indossata sul capo e proteggeva egregiamente dalle intemperie.

    Il pastore era tenuto in forte sospetto dagli stessi margari che lo consideravano un “làder d’erba” perché raramente rispettava i confini dei pascoli segnati con le croci incise sulle pietre.

  Il ‘fèjat’, l’uomo delle pecore non conosceva le proprietà e si distingueva dal margaro che saliva all’alpeggio all’inizio della stagione, vi si stabiliva per l’estate e scendeva all’arrivo del brutto tempo.

   Il ‘crusch’ senza terra restava lassù tutto l’anno nelle poche ‘grange’ aperte a tutti anche quando l’erba era scarsa. Scendeva malvolentieri solo quando vedeva arrivare la neve alta, adattandosi a cercare gli avari pascoli lungo i corsi d’acqua o nella Baraggia e riparandosi alla bell’e meglio con il “patum”, un giaciglio di pelli di pecora avvolto nella tela cerata, con gli scarponi per cuscino e il “paraluscia”, l’ombrello come riparo.

   La sua era una vita dura per uomini speciali.

   Doveva arrangiarsi a fare un po’ di tutto, conosceva a perfezione la tecnica casearia ed é ben probabile che la figura leggendaria dello straniero maestro nei segreti per la lavorazione del latte e del burro memorizzi un lontano passaggio di saperi ai primi alpigiani del posto da un “crusch ramingher”, un pastore errante. 

    Ma la sua caratteristica principale consisteva nel vivere solitario e nel trascorrere la maggior parte del tempo a pensare, fantasticare, sognare tanto che si può pensare che gran parte del leggendario alpino biellese sia frutto delle sue meditazioni mentre un concerto di “sonaje”, campanacci lo ispirava e l’estasiava assaporando l’aria fine e pura delle terre libere e senza i vincoli, spesso assurdi e sempre oppressivi, della società urbana. Era soprattutto un anarchico della montagna. Quasi scomparso.

  Saremo grati a chi vorrà segnalarci realtà analoghe a quelle esaminate in questo articolo scrivendo a storiaribelle@gmail.

   Per approfondire questi argomenti segnaliamo il nuovo libro di Roberto Gremmo pubblicato dalle edizioni “Ieri e Oggi” di Biella.

Roberto Gremmo

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